FARE PACE CON L’ACQUA
Da quando ho memoria l’acqua mi fa paura, è troppo profonda, troppo forte, troppo vasta, troppo scura.
E’ semplicemente troppa perché io possa controllarla. Non ho neanche mai avuto un spirito particolarmente competitivo, non ho mai veramente capito quel piacere di primeggiare; al di là degli istinti più bassi non c’è qualcuno che desideri battere, non per il gusto di farlo quantomeno.
Quando mi sono approcciato al mondo del kayak è stato quindi più per una sfida personale, una sfida diversa dal desiderio di vincere, se dovessi infatti combattere con me stesso è difficile che finisca bene, una parte di me sarebbe comunque la perdente. Ho quindi cominciato a pagaiare perché volevo provare a sentirmi a mio agio con un mondo che non avrei mai potuto controllare. Questa si che è una sfida.
Già dall’inizio ho però fatto fatica a trovare uno spazio mio che non fosse relegato ad una prestazione, mancandomi l’approccio sportivo cercavo qualcosa che fosse più connesso ad un rapporto con l’ambiente e l’elemento acqua. La soluzione è arrivata scoprendo la tradizione Groenlandese. Riflettendo su una pratica nata dagli Inuit è difficile non immaginasi degli umani così piccoli, così fragili, di fronte ad una natura crudele come solo l’artico può essere. Lì ho ritrovato qualcosa che dentro di me suonava.
Se l’acqua può far paura, quanto deve essere terrificante un oceano semi-ricoperto di ghiaccio?
Quanta poca possibilità di controllo c’è in un ambiente che offre pochi spunti pure ai licheni?
Quanto è terribile la necessità di sopravvivere in un ambiente così?
Eppure dovevano sopravvivere e lo hanno fatto, lo facevano e continuano a farlo. In questo ho ritrovato una parte di me, perché non solo lo hanno fatto ma hanno sviluppato un rapporto sacro con questa natura enormemente più grande, con il loro mezzo, il kayak, e di fondo hanno preso una condizione esistenziale terribile e ne hanno creato un rapporto sacro con loro stessi.
Dove da una parte c’è un’imbarcazione che va imbrigliata, un’acqua che va morsa, un risultato che va portato a casa, ho scoperto un mondo fatto di “qajaq” che non sono una barca separata da te ma un vestito che indossi, un mondo dove l’acqua non va aggredita ma sentita, dove quell’elemento così alieno diventa un appoggio, un luogo sicuro, e dove il risultato non è il punto, perché pagaiare non è quanto tempo ci metto a fare i mille metri, pagaiare è una cosa che si deve fare, loro per sopravvivere io per riscoprire me stesso.
Ora non voglio fare un reale paragone fra le mie necessità, giovane del XXI secolo, e quelle di un Inuit di secoli o millenni fa. Sarei indubbiamente un illuso o più onestamente un arrogante. Non ho neanche intenzione di sminuire il lavoro di colleghi dediti a discipline ben più sportive della mia, che con il tempo ho imparato ad ammirare nelle loro mosse così perfette, quasi ipnotiche.
Quello che però vorrei sottolineare è quanto il mondo del kayak groenlandese garantisca ancora uno spazio al di fuori di logiche competitive e di quanto questo spazio, sia nella mia vita privata che in quella di kayakista, mi è necessario e credo sinceramente possa essere utile a molti. Per quello che mi riguarda si tratta della possibilità di ritornare ad un legame più primitivo con le mie capacità, sentirmi a mio agio in una situazione che non controllo, scoprirmi di fatto un piccolo essere umano e finalmente farci pace.
articolo scritto da Leonard Cornelius Abraham Volk
Un nome piuttosto lungo che viene abbreviato in “L’Eschimese” alla Canottiere Comunali di Firenze, luogo in cui mi alleno regolarmente e dove faccio da supporto agli Istruttori. Pratico il kayak da quattro anni e cerco uno spazio per me e per gli altri interessati nella disciplina del Qajaq Groenlandese.